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martedì 21 marzo 2017

622 - SCHERZI A FIN DI BENE

C'è stato un periodo in cui a scuola avevo un comportamento che, da un giudizio superficiale e ottuso, potrebbe essere considerato da bullo, ma in realtà era a fin di bene, in quanto facevo scherzi per colpire i difetti e fare della vittima una persona migliore.
C'era uno grande e grosso, che poi è diventato direttore di banca, abitava lontano perciò con altri due aveva il permesso d'uscire quindici minuti prima all'ultima ora, per prendere l'autobus riservato a quelli che abitavano in quella zona a molti chilometri di distanza. Ma lui era un secchione, pronto per uscire con addosso il soprabito di pelle e con la sacca dei libri in spalla, si metteva in piedi con i gomiti appoggiati sul banco ancora per qualche minuto ad ascoltare estasiato l'insegnante, per poi correre via in extremis e arrivare di corsa alla fermata dell'autobus.
Era un comportamento obbiettivamente da rincoglionito a forza di studiare, eccessivo. Allora, avendo la fortuna di essere proprio dietro a lui in classe, ne approfittavo per fargli scherzi a scopo didattico. Quando si metteva in piedi con i gomiti sul banco avevo davanti il suo culone nei jeans che usciva dallo spacco dietro del soprabito, tiravo fuori l'accendino e glielo scaldavo, lui talmente preso dall'ascolto iniziava a muovere il culo come se ballasse uno shake per poi finalmente fare un balzo in avanti. Dopo alcune volte imparò a non appoggiarsi con i gomiti sul banco e a non mettermi il culo davanti alla faccia.
Però continuava con il rimanere in piedi ad ascoltare fino all'ultimo secondo possibile, perciò un giorno gli legai la cinta non allacciata del soprabito alla sedia, non se ne accorse, quando partì di corsa si trascinò la sedia per l'aula, facendo un baccano infernale e prendendosi un rimprovero dall'insegnante, che gli disse di non fare più quel trambusto, ma di andarsene con calma e per tempo.
Così imparò ad andare via con gli altri, senza fare il fanatico.
Un altro un po' snob, che poi è diventato un sindacalista, si portava una pasta al cioccolato da casa, veniva con i libri e la pasta dentro una borsa da ginnastica firmata, poi durante la ricreazione parlava con disprezzo di quelli che andavano a fare la fila per prendersi qualcosa da mangiare alle macchinette o dal paninaro, che veniva a vendere panini nel corridoio.
Un atteggiamento di superiorità sbagliato, da correggere.
Così, durante le prime ore di lezione, regolarmente gli fregavo la pasta dalla borsa e nel cellophane della confezione vuota gli mettevo la moneta per comprarsene una nuova, ero onesto e corretto in fin dei conti. Quando suonava la campanella della ricreazione apriva la sua borsa del cazzo, pregustando la pasta al cioccolato, ma trovava la confezione vuota con la moneta dentro e aveva una crisi isterica, si arrabbiava moltissimo, esageratamente. Per cui continuai a prelevargliela, anche se si metteva la borsa tenendola stretta tra le gambe per tutta la mattina o se la metteva incastrata sotto il banco, agendo in complicità con altri riuscivo quasi sempre a fregargliela.
Finché un giorno mi fregò lui e nella borsa cominciò a portarsi una specie di focaccia insipida fatta in casa da sua madre, immangiabile, perciò non gliela prelevai più.
Però gli avevo fatto cambiare in meglio la sua dieta, ora mangiava cibi più genuini, fatti in casa e con meno zuccheri aggiunti, non alimentava più l'industria del cibo spazzatura, oltre al risparmio che otteneva dopo questo cambiamento.
Un altro basso e moro, che poi è diventato un consulente finanziario, era considerato bello dalle ragazze, a me invece pareva un tappo da damigiana, comunque a causa delle ammiratrici era diventato un pallone gonfiato, camminava come se avesse un manico da scopa nel culo con sempre una camicia bianca aperta sulla collanina d'oro e i capelli cotonati. Durante la ricreazione stava a fare la sfilata nel corridoio per poi andare in bagno poco prima di rientrare. Essendo che in quel periodo c'era la macchinetta delle bevande calde difettosa, quando prendevo la cioccolata alla macchinetta usciva spesso amara, non riuscivo a berla tutta. Notando che lui andava sempre per ultimo in quella precisa postazione del gabinetto, misi il bicchiere di cioccolata da finire sopra la porta socchiusa e tornai in classe. In ritardo arrivò anche lui con la camicia bianca tutta macchiata, che pareva avesse incontrato uno con la diarrea a spruzzo, e con i capelli fradici che si era sciacquato sotto il rubinetto.
Un altra volta misi in una manica del suo giubbotto il bicchiere di cioccolata da finire, così ci infilò la mano dentro, sporcandosi tutto. Poi durante le lezioni con altri gli disegnammo con un pennarello nero dei piccoli cazzi sulla schiena della camicia bianca, doveva essere interrogato quel giorno, perciò andò alla lavagna a fare l'esercizio, con l'austero insegnante di ragioneria che gli fissava la schiena con sguardo perplesso, avrà pensato a che mode assurde che c'erano tra i giovani, non bastavano più le camicie in tinta unita, a righe, a quadri, a quadretti o con disegni fantasia, ora le facevano pure a cazzetti.
Alcuni giorni dopo il tipo ci disse che sua mamma si era arrabbiata molto, perché aveva faticato tanto lavando a togliere in cazzi dalla camicia. Da allora smise di mettersi sempre le camicie bianche e iniziò a venire a scuola vestito meno da esaltato. Gli scherzi fatti erano andati a buon fine.
Un altro magro e altissimo, che è diventato un impiegato statale, aveva il brutto vizio di farsi gli interessi degli altri, guardava e spettegolava in continuazione, quando era ora di uscire si appoggiava al termosifone a guardare e controllare tutti quelli che passavano, poi se ne andava anche lui. Pertanto quando lo vedevo appoggiato al termosifone a spiare, stando dietro di lui in modo che non mi notasse, aprivo il rubinettino dell'acqua che gli bagnava la schiena del giubbotto, non se ne accorse mai.
Un giorno finì anche sui calzoni e se ne accorse.
Essendo lì vicino diedi la colpa a lui, dicendogli che si appoggiava strofinandosi sul termosifone, finché apriva il rubinetto, e gli stava bene così imparava a guardare gli interessi degli altri.
Mi diedero ragione quelli che c'erano nelle vicinanze.
Lui stesso disse che era vero, gli capitava molte volte di tornare a casa e mentre lo appendeva all'attaccapanni notava di avere il giubbotto tutto bagnato sulla schiena.
Se ne andò casa con un'espressione malinconica e i pantaloni bagnati, pareva si fosse pisciato addosso.
Ma da allora  smise di appoggiarsi lì a spiare quello che facevano gli altri. Anche lui aveva imparato la lezione.